La prima cosa che impari, quando soffri di emicrania, è che non vale la pena sprecare tempo nel tentativo di spiegare agli altri come ti senti. I più gentili ti offriranno un Moment, gli altri inizieranno a parlare di “quella volta che anche io ho avuto un mal di testa mentre ero in ufficio”. Io ho smesso da tempo di provare a spiegare che quando hai l’emicrania in ufficio non puoi restare perché la luce dello schermo del pc ti fa venire la nausea. Ho smesso anche di dirgli che però fai fatica a tornare a casa perché non puoi guidare, e anche prendere la metro può essere un problema perché non riesci a stare in piedi. Ho smesso di spiegare che il Moment non serve a niente, e che è meglio se stanno zitti perché ti danno fastidio anche i rumori, oltre alle luci. Ho smesso di tentare di descrivere il dolore e i rimedi che vorresti adottare (io, per esempio, quando ero bambina desideravo una siringa con ago bello largo da infilare nel bulbo oculare per “aspirare” quello che immaginavo essere un corpo estraneo vivo e cattivo, una specie di visitors ospitato nella mia testa). Ho smesso di spiegare che girare la testa sul cuscino sembra l’impresa più faticosa del mondo. Ho smesso persino di mandare al diavolo quelli che mi dicono che “se stai sempre a letto il mal di testa non ti passa”. Ho smesso anche di vergognarmi ogni volta che vomito sui marciapiedi o dai finestrini delle auto in corsa o nei bagni di locali pubblici. Ho smesso di dire che se mi fossi svegliata con il mal di testa nel giorno del mio matrimonio, avremmo dovuto spostare tutto perché non ci sarebbe stato verso che io potessi arrivare in chiesa (poi in chiesa non ci sono andata lo stesso, ma questa è un’altra storia). Ho smesso di raccontare che a volte se la giocano, in termini di forza, il dolore dell’attacco emicranico e il desiderio di morire. Da oltre trent’anni, l’emicrania mia ha fatto male ogni mese, ma soprattutto mi ha fatto sentire sola.
Poi è arrivata Joan Didion: “Che di emicrania non si muoia appare, a chi è nel pieno di un attacco, un beneficio discutibile”.
Trovare le sue parole, nel libro “I racconti delle donne” curato da Annalena Benini (che non smetterò mai di ringraziare per questo volume prezioso), mi ha fatto finalmente sentire capita, perché nessuno prima d’ora aveva mai trovato le parole esatte per raccontare quello che prova una persona che soffre di emicrania.
“Una volta partito l’attacco, non c’è farmaco che tenga. L’emicrania provoca blande allucinazioni in alcuni individui, ne acceca temporaneamente altri, si manifesta non solo come cefalea ma anche sottoforma di disturbi gastrointestinali, dolorosa ipersensibilità a tutti gli stimoli sensoriali, stanchezza repentina e insostenibile, afasia simil-apoplettica, e come rovinosa incapacità si svolgere le operazioni più banali. Quando sono in preda all’aura passo con il rosso, perdo le chiavi di casa, rovescio qualunque cosa tenga in mano, non riesco a mettere a fuoco lo sguardo né a formulare frasi di senso compiuto, e in generale do l’impressione di essere drogata, o ubriaca. Il mal di testa, quando arriva, si porta dietro brividi, sudorazione, nausea, e una debolezza che sembra voler mettere alla prova i limiti della sopportazione”.
Ecco qua: in poche righe Joan Didion è riuscita a spiegare come mi sento quando ho mal di testa. Quasi quasi me le stampo su una maglietta e la indosso ogni volta che ho un attacco, così finalmente gli altri capiranno e la smetteranno di offrirmi un Moment.